Il fiume i Tigli: ripensare il ruolo del confine, a partire dal Tagliamento.

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Credits: Eugenio Novajra
Credits: Eugenio Novajra

Credo che chiunque sia nato in Friuli, in questo paese di primule e temporali da pasoliniana e ancora realistica definizione, abbia alcune esperienze scolpite sottopelle che lo differenziano naturalmente dagli altri: una di queste è il confine.

Il confine più tangibile accanto al quale sono cresciuta è il Tagliamento. Ho sempre abitato a Codroipo, in una frazione da 400 abitanti circondata dai campi di mais e dai gelsi, e subito dopo una marea di claps e di ramaglie secche con tante piccole pozze d’acqua. Sopra di lui, 1 km di ponte che collega la provincia di Udine con quella di Pordenone. A Codroipo si disprezza un po’ chi abita oltre quel ponte, appena sentiamo una vocale un po’ più aperta, una e che si trasforma in a, un accento leggermente diverso l’esclamazione di risposta è sempre un pungente “ah tu ses di-là-dal-aghe”. “Di-là-da-l’aghe”, dall’altra parte dell’acqua, non mi è mai parso un immagine così discriminatoria anzi, andare al-di-là, espandersi, costruire ponti e non muri, è una immagine a cui sono molto affezionata. Ma siamo persone dal cuore un po’ rozzo in Friuli, basti pensare che le frasi “sono felice” e “ti amo” non esistono, tendenzialmente diciamo “eh al va al va” e per volerci bene ci diciamo “va a cagà” con il tono più affettuoso possibile. Ogni immagine è sia un po’ crudele che nasconde un anima dalla profondità semplice e immediata.

Pier Paolo Pasolini è cresciuto a Casarsa, di-là-da-l’aghe, e per quanto sia stato in Friuli pochi anni, è stato in grado di descrivere in maniera molto precisa il rapporto con questa terra. Come in questo testo, che riporto testualmente:

IL QUARANTA CINQUE. Trascinando i piedi nella polvere, ciechi di stanchezza, vanno via i Tedeschi, pecore nella nebbia. Vanno tra le macerie, tra le acacie bagnate, trascinando i fucili nel fango, per le strade più nascoste. Sul borgo una campana batte il Mattutino, e i giorni ritornano com’erano prima. Sui borghi le campane suonano a festa, per le corti ben spazzate, per la fresca campagna, dove sciami di bambine, con la treccia che gli luce, per gallerie di venchi, vanno allegre a messa. E dietro i ragazzetti, appena confessati, coi calzettoni bianchi, e i biondi capi tosati. Lunedì, lunedì di Pasqua! Quando corrono ridendo i più bei giovincelli, sul ponte del Tagliamento, con le loro biciclette e le magliette bianche, sotto i blusoni inglesi, che sanno di arance! Un poco ubriachi cantano, alla mattina presto, e sulle loro sciallette gli gela il fiato la bora, giù per Codroipo, Casale, per le praterie piene di posteggi e di compagnie, di gente che gioca, grida, sotto la piattaforma, dentro i fiammanti spacci del primo ballo dell’anno. Il Signore ci ha vestiti di allegria e pietà, una corona di amore ha messo sul nostro capo. Il Signore ha voluto abbassare rupi e monti, colmare le vallate, fare uguale tutto il mondo, perché il suo popolo contento cammini per la quieta terra del suo quieto destino. Il Signore lo sapeva che nel nostro cuore, dietro il nostro scuro, c’era il Suo splendore.

The hidden splendor in misery, in a land torn apart by wars. It crosses the bridges, builds them, but not in the mere sense of cementing, but to create brotherhood. To create community. That when I remove my border, when you have access to my essence, and you do the same, we come out enriched and not bombarded.

Lo splendore nascosto nella miseria, in una Terra lacerata dalle guerre. Attraversa i ponti, costruirli, ma non in mero senso di cementificazione, ma di creare fratellanza. Di creare comunità. Che quando io tolgo il mio confine, quando tu hai accesso alla mia essenza, e tu fai lo stesso, ne usciamo arricchiti e non bombardati. E se da bambini proviamo tutti una viscerale attrazione per l’avventura e per la scoperta del piccolo universo che ci circonda, e ogni cosa scontata e abituale per un adulto del mondo moderno, è una elettrizzante novità. Se da bimbo ti arrampichi sugli alberi, metti i piedi nei fiumi, scopri che dopo quella linea immaginaria di “di-là-no-tu-vas” che ti impongono i genitori c’è un mondo immenso. Se da bambino il confine non lo riesci a capire, se alla frontiera con l’ex- jugoslavia dove continuiamo a fare benzina per pagarla un po’ meno senti delle voci cambiare ma provi solo curiosità, sono quel desiderio di imparare cose nuove, di conoscenza, di andare appunto all’avventura, quand’è che l’abbiamo messo da parte questo desiderio? Quando è che abbiamo smesso di abbracciare le cortecce per arrampicarci fino a qualcosa di un po’ più alto, sufficente per raccogliere la frutta di stagione e dondolare le gambe prendendo un po’ di ombra? Ci siamo davvero convinti sia così scomodo e infantile?

Il termine Tagliamento ha due matrici etimologiche: oltre che sorgente, dal celtico, deriva dall’indo-europeo Tiglio. E infatti nella maggior parte dei paesi veniva posto un tiglio al centro dei paesi, che fungesse da punto di ritrovo, di incontro, di scambio.

Questo è l’augurio: rimettere gli alberi, che siano tigli, gelsi, betulle, pioppi, i fiumi, e ricreare umanità, comunità, scambio, e vedere il confine come qualcosa su cui creare ponti, e poi distruggerlo quel confine, perché non dà più inizio a qualcosa di spaventoso e terribile ma ad una nuova parte del sé in continua espansione.

Espandiamoci. Creiamo. Confrontiamoci.

Se davvero vogliamo vivere in armonia, deve partire da ogni luogo, da ogni paese, e da ogni confine presunto.

Co la sera a si pièrt ta li fontanis

il me paìs al è colòur smarìt.

Jo i soj lontàn, recuardi li so ranis,

la luna, il trist tintinulà dai gris.

A bat Rosari, pai pras al si scunìs:

io i soj muàrt al ciant da li ciampanis.

Forèst, al me dols svualà par il plan,

no ciapà pòura: io i soj un spirt di amòur

che al so paìs al torna di lontàn.

Ester Parussini